Conobbi Marco Pannella quando avevo 15 anni, anche se lui non se lo ricorda: era il 1983 e mi iscrisse gratuitamente al Partito Radicale. Poi, nel 2009, a Ferragosto, mi capitò di rivederlo perché m’invitò a quell’incredibile maratona radiofonica che è la «conversazione settimanale con Pannella»: tre ore di dialogo surreale e indimenticabile. Nel periodo immediatamente successivo ci sentimmo abbastanza spesso, ma io, d’un tratto, non mi feci più vivo. Tempo dopo mi telefonò e me ne chiese le ragioni. Gli risposi che avevo scoperto, dall’oggi al domani, che mio padre stava morendo per un tumore ai polmoni. E nel mese che seguì, prima delle esequie, a parte pochissimi amici, c’è una sola persona di media conoscenza - lui - che continuò a telefonarmi, a chiedermi di mio padre, ogni volta ricordandosi ogni minimo particolare, senza poi avere null’altro da chiedermi o da dirmi. E ho imparato che ci sono persone così, eccessive nel bene e nel male, capaci di una generosità improbabile e però autentica, di un trasporto a cui loro, per primi, non possono resistere: poi magari spariscono per anni. E oggi, nel 2014, leggo che Marco Pannella ha due tumori, di cui uno al polmone. Ha esattamente l’età che aveva mio padre. E io comprendo ancora di più, sulla mia pelle, che ci sono delle persone che viceversa sono incapaci di vincere una pudica e timida ritrosia, incapaci di un gesto, magari anche di una banale telefonata, e capaci al limite, scioccamente, di vergare solo uno scritto come questo.