Flessibilità non è solo articolo 18
Dunque sulla modifica dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quello che regola i licenziamenti per «giusta causa», il governo ha deciso di tirare dritto: il nuovo testo approvato ieri dal Consiglio dei ministri non differisce in modo sostanziale dalla versione iniziale che era stata presentata dal ministro Maroni a metà novembre. La novità principale, a ben vedere, è di comunicazione: più volte avvertito dagli esperti che il governo stava perdendo la battaglia sul piano mediatico, vuoi per la delicatezza dell'argomento licenziamenti, vuoi per gli errori di ministri e viceministri che a volte si sono anche contraddetti promettendo cose diverse a sindacati e imprenditori, Berlusconi ha deciso di esporsi in prima persona. E se in passato il governo si era speso soprattutto per minimizzare l'impatto di una misura «sperimentale e applicabile solo a pochi casi», stavolta l'accento è stato posto su due concetti «forti»: se non si interviene, crescerà la diseguaglianza e il conflitto tra generazioni, con gli anziani ipergarantiti e i giovani che non riescono ad entrare nel mondo del lavoro; le nuove norme sulla flessibilità spingeranno le imprese a fare molte più assunzioni e il governo verificherà, cifre alla mano, l'entità di questo fenomeno. Il passaggio del governo da una strategia essenzialmente difensiva ad una che fa perno su slogan come «non più licenziamenti ma più gente negli uffici e nelle fabbriche» non è certo irrilevante politicamente. Ma con i sindacati sempre più determinati a mostrare la loro forza in piazza e i partiti dell'opposizione decisi a giocare al loro fianco l'unica delle battaglie che hanno fin qui intrapreso che sembra godere di un elevato grado di popolarità, si consolida la tendenza dei due fronti a considerare quello dell'articolo 18, come notava qualche giorno fa Sergio Romano, una specie di spartiacque tra il bene e il male.
Un gioco politico lecito, ma destra e sinistra non possono ignorare che non è di questo che hanno bisogno l'economia e la società italiana. Se il nostro mercato del lavoro viene considerato il peggiore d'Europa e il nostro tasso di occupazione è il più basso, evidentemente abbiamo (anche) un problema di ammodernamento di un diritto del lavoro concepito quando le condizioni dello sviluppo e le regole di mercato erano completamente diverse da quelle di oggi (lo Statuto dei lavoratori è di 32 anni fa).
Di questo sono consapevoli i leader della sinistra, a cominciare da Rutelli e Fassino che in altre circostanze e in altro clima si sono mostrati disponibili a modificare, a certe condizioni, questa legge, a introdurre più flessibilità nel sistema, a puntare su uno Statuto dei nuovi lavori come quello proposto da Giuliano Amato. Ma anche al governo è lecito chiedere una riflessione: fin qui non ha affrontato serie obiezioni di merito come quelle formulate da Pietro Ichino (le nuove norme, benché orientate alla flessibilità, lasciano qualunque magistrato del lavoro libero di giudicare infondati i criteri industriali e organizzativi utilizzati da un imprenditore per motivare un licenziamento con conseguente reintegro forzato del dipendente, esattamente come avviene oggi). E non ha avuto la lungimiranza di inserire le norme su un mercato del lavoro più flessibile in un nuovo welfare.
Certo, una riforma degli ammortizzatori sociali costa molto e sono comprensibili le perplessità del ministro dell'Economia Giulio Tremonti che deve rispettare le compatibilità di bilancio e reperire le risorse per una riforma centrale come quella del Fisco. Ma proprio per questo è necessario che il governo non combatta una battaglia isolata sull'articolo 18: serve invece uno sforzo complessivo di cambiamento che deve passare anche da un nuovo impegno sui costi della previdenza e da una ripresa delle privatizzazioni che possono garantire, insieme, risorse e modernizzazione del sistema.
di MASSIMO GAGGI