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"GLI ORDINI NON GIOCHINO SOLO IN DIFESA"

Testo: 

di B. Della Vedova

In Italia, quando si parla di liberalizzazioni c'è sempre chi invoca la "specificità" del settore coinvolto: dai servizi pubblici (elettricità, gas, comunicazioni, trasporti, taxi....), al commercio (liberalizzazione delle licenze, e non solo per le farmacie), alle libere professioni (notai, avvocati, giornalisti....) si trova sempre una buona ragione per difendere gli interessi di consumatori ed utenti dai cinici demoni del libero mercato e della concorrenza. Perfino in occasione della liberalizzazione del commercio delle autovetture nella UE, le grandi case automobilistiche europee hanno tentato di far passare la tesi che l'automobile non fosse un prodotto come gli altri, e quindi che la sua commercializzazione non potesse seguire le regole del mercato interno previste per gli altri prodotti "comuni". Come si diceva, il tutto a difesa degli interessi di utenti e consumatori, di cui si farebbero carico, di volta in volta, i monopoli statali nei servizi pubblici, le grandi organizzazioni corporative degli Ordini professionali e perfino le case automobilistiche, a vario titolo garanti di una "qualità" che il mercato aperto e concorrenziale non assicurerebbe. A questo quadro idilliaco corrisponde una realtà diversa, fatta di ricche rendite di posizione e di desiderio di ostacolare - o almeno di controllare - l'accesso ai mercati ed alle professioni da parte di quanti abbiano già raggiunto una posizione (magari dopo aver essi stessi subito le umilianti trafile previste da meccanismi basati più sulla cooptazione che sul merito effettivo).
Intervenendo su questo giornale in polemica con lo sforzo di liberalizzazione delle professioni portato avanti dalla Commissione europea ed in particolare dal Commissario Mario Moti, Renato Brunetta, in genere sempre attento alle ragioni del mercato e della libera concorrenza, difende il "modello continentale" e in particolare italiano, basato sugli ordini professionali, rispetto a quello anglosassone, basato su libere associazioni di professionisti, addirittura paventando il rischio di una "colonizzazione da parte delle potenti e strutturate società di servizi britanniche" (Albione continua a non godere di buona stampa....). Il che, però, sembra implicitamente riconoscere che le società di servizi professionali del Regno Unito siano decisamente più competitive di quelle italiane. Questo è un punto cruciale su cui riflettere, in particolare riprendendo un passaggio dell'ultima relazione del Presidente dell'Autorità antitrust italiana, Professor Giuseppe Tesauro, anch'egli in prima linea per la liberalizzazione dell'esercizio delle professioni: "Il nucleo di settori produttivi più "problematici" per la concorrenza (...) è costituito dalle telecomunicazioni, dai servizi professionali, dai trasporti, dall'energia, dai servizi finanziari e assicurativi, dal commercio. Questi settori non offrono soltanto beni di consumo finale ma, in misura rilevante, anche beni e servizi intermedi utilizzati - sia direttamente, sia indirettamente - dai diversi settori dell'economia e, in particolare, dell'industria esportatrice". L'analisi è chiara: anche i servizi professionali, settore scarsamente competitivo e quindi non sufficientemente efficiente, contribuiscono a penalizzare la competitività delle imprese italiane più esposte alla concorrenza internazionale. Del resto la stessa produzione italiana di servizi professionali soffre dell'attuale stato di cose, come evidenzia la posizione di importatore netto di servizi professionali del nostro paese, che è il risutato non tanto di una scarsa dotazione di risorse professionali, quanto di una regolamentazione che ostacola la concorrenza e l'innovazione e che fa si che, ad esempio nel campo giuridico, contabile e dell'ingegneria, le ben più dinamice imprese angloamericane la facciano da padroni sui mercati internazionali (e sempre più su quello italiano). Bisogna sottolineare come le economie europea ed italiana, si stiano sempre più orientando alla produzione di servizi e che per il futuro proprio in questo settore si apriranno buone prospettive per l'esportazione. Rinunciare ad una iniezione di libertà di impresa e di concorrenzialità e attardarsi nella difesa di assetti di stampo corporativo, significa lasciare il campo libero ai produttori di servizi di altri paesi, anglosassoni e non solo. E' indubbio, come scrive Brunetta, che il contesto sociale, economico e culturale anglosassone abbia delle specificità diversissime dalle nostre, ma quando la diversità è, o diviene, sinonimo di debolezza strutturale, sarebbe bene considerare la prospettiva coraggiosa delle riforme radicali.
Un dato importante (e che proprio Brunetta sembrerebbe contestare) è ciò che la giurisprudenza comunitaria ha a più riprese ribadito, vale a dire che i servizi professionali (incluse le libere professioni) siano da considerarsi attività di impresa ai fini dell'applicazione del diritto comunitario, e quindi soggetti all'applicazione delle regole di concorrenza previste dal Trattato CE. Analoga considerazione vale per gli Ordini, in quanto gruppi di imprese. Sembra inoltre poco convincente l'idea che, poichè vi sarebbe concorrenza all'interno di ogni singola professione, un Ordine non dovrebbe essere considerato impresa o gruppo di imprese: in realtà una intesa di restrizione della concorrenza puo' riguardare solo alcuni ambiti di competizione (la creazione di barriere all'ingresso, la fissazione dei prezzi, o altro), lasciandone liberi altri. Del resto, anche il Tar del Lazio ha ribadito di recente, avallando le posizioni di Tesauro, il proprio orientamento ad includere le libere professioni nella nozione di impresa ai fini dell'applicazione della normativa a tutela della concorrenza. Intervenendo sul tema più "scabroso", quella della professione medica, il Tar, ha sotolineato che anche i medici chirurghi e odontoiatri, come altri esercenti una professione intellettuale, "vanno considerati imprese, in quanto la loro attività consiste nell'offerta sul mercato di prestazioni suscettibili di valutazione economica". Ciò non esclude, ovviamente, una rigorosa regolamentazione della professione medica a tutela dell'accesso e della qualità delle prestazioni.
Il ruolo delle associazioni professionali dovrebbe essere un altro: proprio il caso anglosassone mostra che il ruolo da queste svolto per certificare la qualità di servizio non è affatto legato né al loro status pubblicistico (infatti le associazioni professionali sono enti privati) né all'esercizio in esclusiva di tale attività (le associazioni sono libere ed in competizione fra loro ed il loro principale asset è la reputazione di cui godono sul mercato).
Sembra davvero difficile imputare al Commissario Monti "eccessi" in fatto di spinta alla liberalizzazione delle professioni dette, appunto, "liberali". Piuttosto c'è da augurarsi che gli Ordini Professionali italiani accettino a viso aperto il confronto con Bruxelles, giocando un po' meno sulla difensiva e cercando di far fruttare sul mercato europeo e mondiale quel patrimonio di "specificità" di cui sono fieri. Sulla prospettiva di riforma, e non sulla difesa tetragona dello status quo - sono sicuro converrà anche il Professor Brunetta - si deve aprire la discussione. In definitiva sarebbe anche un modo per "completare" il disegno di liberalizzazione del mercato del lavoro.

Data: 
Sabato, 25 October, 2003
Autore: 
Fonte: 
IL SOLE24ORE
Stampa e regime: 
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