di Francesco Pullia
Diciamoci, come sempre, la verità. E' probabile che sulla proposta referendaria radicale di abrogazione della legge, illiberale e oscurantista, sulla procreazione medicalmente assistita si riesca a raggiungere un numero sufficiente di firme per assicurare ai cittadini un altro momento di confronto civile e democratico. Gli sforzi sono tanti ed è encomiabile, e anche commovente, la passione che dal mese di aprile anima i militanti radicali. La questione non è questa. Il problema, e molto serio, è invece un altro e non può sfuggire ad un attento osservatore della politica nazionale.
Questo referendum è di fatto osteggiato, se non boicottato, dal maggiore partito della sinistra, cioè dai Ds. Non è che manchino attivisti diessini che si sentano sinceramente coinvolti da questa ennesima battaglia di libertà. Ce ne sono, eccome. Li abbiamo incontrati anche in diversi tavoli. Ma sarebbe ipocrita non constatare che il partito dei Ds, nella sua struttura, è ancora una volta totalmente assente. E questo per il semplice motivo che tutto ciò che in qualche modo si richiama ad un preciso disegno riformatore è, per sua natura, estraneo alla storia dell'ex Pci, oggi Ds, e pertanto paventato come un'autentica iattura dai suoi vertici.
Chi avrà la possibilità di visitare il sito web di Radio Radicale, troverà in merito un accurato e interessante lavoro di documentazione svolto pazientemente, e con competenza, da Diego Galli dal titolo inequivocabile: "La sinistra e le (mancate) battaglie per la laicità". Basta leggerlo per avere conferma di come e di quanto negli ultimi trent'anni l'ex Pci, oggi Ds, si sia sempre sottratto ad ogni impegno referendario.
Dal divorzio all'aborto, all'art.18, fino all'attuale richiesta abrogativa della legge sulla fecondazione medicalmente assistita è riscontrabile un cammino senza soluzione di continuità. E questo perché l'istituto referendario, essendo uno strumento reale, concreto, di democrazia, risulta inconcepibile ai vertici di un partito che storicamente, e soprattutto negli ultimi tempi, rappresenta in Italia il massimo del conservatorismo e che, dunque, preferisce la via del compromesso parlamentare (chiamatelo, se volete, pateracchio, accordo spartitorio, inciucio, non fa poi molta differenza) a quella della diretta partecipazione popolare.
Non solo. E' proprio l'istinto conservatore, reazionario, retrogrado a rendere l'ex Pci, oggi Ds, il partito su cui maggiormente fanno affidamento, ricevendone in cambio certezze, le alte sfere della chiesa cattolica. Non è un caso che in regioni tradizionalmente rosse come l'Umbria diversi esponenti del mondo cattolico, legati a doppia mandata ad ambienti vescovili, siano stati chiamati dall'ex Pci, oggi Ds, a ricoprire posti di primo piano a livello amministrativo e parlamentare. Si pensi, poi, al ruolo giocato dalla componente, minoritaria ma non ininfluente, dei cosiddetti "cristiani sociali" che, con la loro rete di rapporti con prelati, associazioni scoutistiche e di volontariato, finiscono per controllare e condizionare scelte importanti all'interno del partito che ieri fu guidato da Berlinguer e oggi da Fassino.
Ma "cristiani sociali" a parte, sta di fatto che il conservatorismo e il confessionalismo sono profondamente radicati nella vicenda politica degli ex comunisti, a tal punto da far parte del loro patrimonio genetico. Più clericali degli stessi chierici, comunisti di allora ed ex comunisti di oggi sono i tenaci custodi dello spirito concordatario, cioè di quella concezione che, in spregio alla religiosità, si fonda sulla capitolazione della laicità dello stato dando valore solo alle decisioni delle autorità ecclesiastiche e non a quelle del popolo dei credenti.
D'altronde, può apparire scontata, ma è effettiva e non causale, la rassomiglianza da sempre riscontrata dai laici tra la visione strutturale cattolica e quella comunista. Come la Chiesa ha i suoi seminari, allo stesso modo i comunisti hanno le loro scuole di partito in cui si formano (o deformano) i cosiddetti "quadri dirigenti". E l'osservanza è la medesima. Ecco perché uno strumento d'azione politica, come il referendum, che rende i cittadini liberi dal rigido controllo di un partito (o di una chiesa) è sostanzialmente aborrito dall'ex Pci, oggi Ds.
Lo dimostra il fatto che, se solo i vertici di questo partito lo avessero davvero voluto, le firme necessarie a mandare in porto l'iniziativa referendaria radicale sarebbero state da un pezzo raggiunte, senza attendere ipocritamente l'occasione delle varie feste dell'Unità. Sarebbe bastato mobilitare una minima parte di sindaci, presidenti di provincia e consiglieri. Così, appunto, non è stato. E non è tutto. L'ex Pci, oggi Ds, porta su di sé, e lo sa bene, la responsabilità dell'approvazione della legge 40 perché ha ostinatamente evitato ogni possibile scontro (che sarebbe stato, invece, auspicabile e doveroso) in sede parlamentare. Se lo avesse voluto, avrebbe potuto impedire sul nascere il misfatto.
E, invece, com'è sua tradizione, non ha mosso dito, lasciando in uno splendido isolamento il repubblicano Del Pennino e il suo senso laico, e quindi profondamente religioso, della vita. E, allora, stando così le cose, non facciamoci illusioni. Non confidiamo per vincere nell'apporto dell'ex Pci, oggi Ds. Il referendum non s'addice ai comunisti e ai loro eredi.