di SERGIO LUZZATTO
Sostiene il buono storico: abbasso la posta elettronica! Se infatti - nella routine quotidiana dei più - le email semplificano parecchio la vita, la comunicazione per via telematica, anziché cartacea, va condannando a morte una fonte particolarmente cara a quanti lavorano alla ricostruzione del passato: la posta elettronica è il serial-killer degli epistolari. Anche per questo - perché sappiamo che i nostri posteri non leggeranno mai le nostre lettere - capita oggi di salutare come benvenuta la pubblicazione di certi epistolari.
È sicuramente il caso della corrispondenza che scambiarono, dal 1944 al 1957, due spiriti magni di un'Italia che usciva dal fascismo per sperimentare la Repubblica: Gaetano Salvemini ed Ernesto Rossi, le cui seicentotredici missive di quegli anni, inoltrate fra l'America e l'Italia quasi al ritmo di una alla settimana, risultano ora leggibili nel volume Dall'esilio alla Repubblica (pp. 994, 55), in una splendida edizione della Bollati Boringhieri curata da Mimmo Franzinelli, con prefazione di Mario Isnenghi.
Chi abbia una qualche dimestichezza con le figure di Salvemini e di Rossi le ritrova qui disegnate con i contorni più netti e nei colori più vivaci. Di Salvemini - dell'anziano storico il quale, dalla sua cattedra di Harvard, aveva finito per apparire ad occhi americani come l'incarnazione stessa dell'antifascismo italiano - queste lettere restituiscono per intero la verve intellettuale, la stupefacente capacità di lavoro, la sboccata franchezza politica. Di Rossi - l'economista che proprio per fedeltà a personaggi come Salvemini aveva speso il meglio della vita in carcere e al confino - l'epistolario restituisce intatte l'assoluta indipendenza di giudizio, la granitica moralità, la faticosa tenacia di riformista.
D'altra parte, si ritrovano qui tutte le idee preconcette, le idiosincrasie personali, le sordità ideologiche che furono tipiche di una corrente dell'antifascismo italiano, quella inaugurata negli anni Venti dal periodico Non Mollare , consolidatasi negli anni Trenta attraverso l'avventura di Giustizia e Libertà, sfociata durante gli anni Quaranta nell'esperienza del Partito d'Azione.
Anche dopo la sconfitta del nazifascismo, quando - nell'Italia di De Gasperi e di Togliatti - si fece evidente il ruolo dei partiti di massa nel sanare le ferite della guerra civile e nell'educare gli italiani alla democrazia, uomini come Salvemini e Rossi conservarono della politica una concezione autoreferenziale, antiparlamentare, elitista: incapaci di riconoscere quanto poteva esservi di buono anche nei don Camillo e nei Peppone...
Siamo dunque di fronte a un documento monumentale ma prevedibile, inedito ma déjà vu ? Tutt'altro. Com'è spesso il caso degli epistolari, quando mittente e destinatario li trattano quali occasioni per denudarsi l'anima, le lettere scambiate da Salvemini e Rossi riservano al loro postumo lettore il piacere della scoperta, gli regalano sorprese di varia umanità. Quel che più conta: nell'Italia di oggi, dove spira con forza il vento impudico dell'antiantifascismo, la pubblicazione di queste lettere vale da nemesi contro chiunque sia tentato di liquidare al ribasso - con tre o quattro denunce divenute luoghi comuni - il patrimonio politico e culturale della vicenda liberal-socialista.
Il primo luogo comune sbugiardato dalla corrispondenza Salvemini-Rossi è quello che vuole gli eredi di Carlo Rosselli servi sciocchi di Togliatti, «utili idioti» al servizio dei comunisti. Innumerevoli passi di questo epistolario attestano - al contrario - la viscerale diffidenza di due antifascisti della prima ora nei confronti del Partito comunista italiano: dei suoi padri fondatori, dei suoi quadri militanti, del suo vasto elettorato. «Gramsci mi secca a morte: questa gente che sa tutto, mi fa rivoltare lo stomaco», scriveva Salvemini negli stessi anni in cui i Quaderni del carcere andavano diventando lettura obbligata per l'intellighenzia di sinistra. «Se diamo l'impressione di difendere i comunisti, invece delle istituzioni liberali, tutta la nostra azione sarà controproducente», rincarava Rossi.
Il secondo luogo comune che la corrispondenza ora pubblicata consente di rimettere in questione, è quello secondo cui gli ex azionisti sarebbero stati i massimi responsabili della trasformazione della Resistenza da evento storico a mito politico: i colpevoli fabbri della cosiddetta vulgata resistenziale. In realtà, almeno Salvemini e Rossi non si fecero mai soverchie illusioni intorno al carattere genuinamente popolare della lotta armata contro il nazifascismo, né si cullarono mai con l'idea di una filiazione naturale e diretta tra antifascismo e Resistenza. Al contrario, si confessarono da subito la natura quasi congiunturale del movimento di liberazione, promosso da renitenti prima che da resistenti.
«Non bisogna survalutare la guerra partigiana in Alta Italia. Come in Francia, come in Jugoslavia tre quarti è bluff. Bisogna poi tener conto che la grande massa dei partigiani era costituita di disertori che cercavano di salvarsi, di carabinieri, di guardie carcerarie, di lavoratori che avevano preferito darsi alla montagna piuttosto che farsi trasportare in Germania. Solo pochi partigiani hanno veramente combattuto e solo una infima minoranza era mossa da motivi politici»: sembra di leggere un revisionista d'oggidì, mentre si tratta di Ernesto Rossi, da Firenze, il 12 giugno 1945! Dieci anni dopo, ancora egli spiegava a Salvemini, con accenti che suonano berlusconiani ante litteram : «A dirti la verità io ho terribilmente sui coglioni tutte le commemorazioni, ed in particolare modo quelle combattentistiche (garibaldini, reduci, partigiani, ecc.)».
Un terzo luogo comune sfatato da questo epistolario, è l'accusa contro gli ex azionisti di essere stati a tal punto accecati dal laicismo da non vedere la complessità sociale, culturale, politica della nuova Italia democristiana: il Paese delle Madonne pellegrine e delle stigmate di padre Pio, ma anche quello del piano Marshall e dei ministeri De Gasperi. Dietro verifica, risulta come precisamente Alcide De Gasperi sia l'unico uomo di governo italiano al quale - nella riservatezza della loro comunicazione epistolare - sia Salvemini che Rossi riconoscevano la caratura di statista europeo: lui, non Togliatti, appariva loro come il vero «Migliore».
Ancora, esce malconcio dalla pubblicazione di queste lettere il luogo comune destrorso secondo cui la cultura pacifista sarebbe sempre servita alla sinistra italiana da foglia di fico, per non promuovere altro che il più vieto antiamericanismo. Nel teso orizzonte della guerra fredda, Salvemini e Rossi cercarono invece con ostinazione di conciliare la battaglia per la pace con una scelta risolutamente filo-atlantica. Né poteva essere diversamente, almeno per quel Salvemini cui gli Stati Uniti d'America si erano offerti - ai tempi cupi del fascismo - come una patria tanto nuova quanto generosa.
Ecco, quasi annegato nelle mille pagine di una corrispondenza gigantesca, il motivo forse migliore per leggerla come controcanto della nostra difficile attualità: la determinazione di due uomini di pace nel prendere le distanze dalla politica di potenza degli Stati Uniti, ma insieme nell'ammettere che quasi sempre gli yankees si battono dalla parte giusta.
Lo storico
Gaetano Salvemini (nella foto) nacque a Molfetta nel 1873. Storico e sostenitore degli interessi del Sud, fu un feroce critico di Giolitti. Militò a lungo nel Partito socialista, da cui uscì nel 1911 Interventista e poi accanito oppositore del fascismo, venne costretto all'esilio nel 1925 e solo nel 1949 tornò in Italia, dove morì nel 1957 Dedicò diverse opere ai problemi del Mezzogiorno, alla politica estera italiana, al regime fascista
L'economista
Ernesto Rossi (nella foto) nacque a Caserta nel 1897. Antifascista, sotto il regime fu lungamente incarcerato Grande esperto di economia, nel dopoguerra s'impegnò contro i potentati industriali e le ingerenze del clero nella vita pubblica. Morì nel 1967 Il suo carteggio con Gaetano Salvemini è stato raccolto e curato da Mimmo Franzinelli nel volume Dall'esilio alla Repubblica . Lettere 1944-1957 (Bollati Boringhieri, pagine 994, 55)