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Intervista a Daniele Capezzone. Il nuovo non passa per la prima fila della spiaggia di Capalbio.

Testo: 

DANIELE CAPEZZONE, trentatré anni, è l'alfiere del perpendicolarismo radicale. Ovvero di quella particolarissima forma di lotta politica per cui chi è d'accordo con le idee di Marco Pannella è bello e buono, chi le critica è brutto e cattivo. «Lib-lib-lib» e il grido di battaglia. Che porta con sé un corollario da contorsionisti nobili della polemica: si cambia idea sulle persone, ma sugli obicttivi non si fanno sconti. Per questo Cape/zone che, eletto nelle file della Rosa nel Pugno, è diventato presidente della Commissione per le Attività produttive alla Camera, al momento si divide tra la soddisfazione per le riforme del pacchetto Bersani («è un nostro bottino») e la preoccupazione per le sorti dell'alleanza con i socialisti di Enrico Boschi. Già, perché tra i rosapugnanti è scoppiata una specie di guerriglia al calor bianco: una battaglia sulle strategie da seguire che ha portato il deputato Sergio D'Elia a parlare di «crisi evidente» della formazione.
Neanche siete sbocciati che già appassite? «Più che altro rischiamo di morire di noia. A me piacerebbe non ridurre la Rosa nel Pugno a una robetta politicistica gestita da quattro burocrati di partito. Vorrei aprire le porte e le finestre a tutti».
C'è l'ha con Roberto Villetti, che si è dimesso da capogruppo alla Camera in polemica con i radicali?
«La Rosa nel Pugno vive se si smette di pensarla come una bicicletta con un pedale socialista e uno radicale. Dobbiamo evitare di imitare il metodo con cui si sta discutendo del Partito Democratico».
Quale metodo? «Quello indoor, funzionari chiusi in una stanza, con Ds e Margherita che fanno fifty-fifty. Una roba affascinante quanto un trattore».
Ma anche voi sareste interessati al Partito Democratico? «L'ipotesi ci interpella».
Prego? «Siamo aperti, ma solo se è un progetto che segue l'idillio Zapa-Blairista tra diritti e innovazione. Se, invece, si tratta di spartirsi strapuntini e concedere un caffè alla repubblicana Luciana Sbarbati, allora meglio soprassedere».
Il Partito Democratico vuol dire
un'intesa con Francesco Rutelli, che lei ha definito «leader di una svolta neointegralista e neoconfessionale». Come procedono i vostri rapporti da alleati di governo?
«Rutelli, che è duttile e prontissimo, deve scegliere se seguire la strada della modernizzazione o quella del binettismo».
Il binettismo? «La capacità di Paola Binetti (deputata della Margherita, ndr.) di spingersi lì dove non osa nemmeno il cardinale Camillo Ruini. Una tendenza che ha contagiato anche alcuni ministri».
Di chi parla? «Di Giuseppe Fioroni, titolare della Pubblica Istruzione. Ogni due per tre mostra un eccesso di zelo vaticanista. Lo spartiacque per me rimane sempre tra innovatori e conservatori».
Altri conservatori nell'Unione? «Il ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi. Neanche si era insediato che già stilava il decalogo di cosa non si potrà realizzare. È in linea con il suo partito».
Cioè con i Comunisti Italiani. «Oliviero Diliberto e i suoi sono guidati da una logica cinica e ferrea di convenienza: giocano al rialzo barricadero per grattare voti a Rifondazione Comunista, che, invece, su molti temi sta facendo un grande sforzo di ragionevolezza».
Passiamo agli innovatori. «Posso citare Emma Bonino?».
Conflitto di interessi. «Allora il ministro degli Interni, Giuliano Amato, che sulla cittadinanza e gli immigrati ha fatto aperture importanti. E poi il quartetto dei diritti».
Cioè? «I ministri Paolo Ferrero, Livia Turco, Barbara Pollastrini e Fabio Mussi. Su droghe, ricerca e Pacs, hanno tenuto il punto anche di fronte alle intimidazioni dell'Osservatore Romano. Questo però è soprattutto il momento di Pierluigi Bersani». Ha apprezzato il suo exploit? «È da mesi che insisto sulle liberalizzazioni della cosiddetta agenda di Francesco Giavazzi pubblicata sul Corriere. Sembro il suo ufficio stampa. Giavazzi ha avuto il merito di deideologizzare questo tipo di provvedimenti. Bersani ha cominciato a realizzarli. Tra l'altro il diessino è un modello di comportamento».
Perché? «Per un mese, mentre i suoi colleglli blateravano, lui è stato zitto a lavorare. Ha parlato solo a cose fatte». A cose fatte, un altro ministro, quello della Giustizia, Clemente Mastella, ha contestato l'eventuale riforma degli Ordini Professionali. «Mastella si trova di fronte a un bivio. Deve stabilire se vuole galleggiare in modo astuto o prendersi qualche rischio. Per ora mi sembra che abbia optato per la tecnica del chiagni e fotti. Ma deve stare attento a non rimaner fottuto».
Però ha aperto su un punto d'orgoglio radicale: l'indulto. «Infatti lo considero intelligente e veloce. A tutti vorrei ricordare l'immagine dei parlamentari che nel 2002 si spellano le mani mentre applaudono alla proposta di indulto di Karol Wojtyla. Spero non entrino in scena i garantisti a targhe alterne».
Chi sarebbero? «Quelli come Ignazio La Russa e Maurizio Gasparri di An: sono stragarantisti con l'intercettato Salvatore Sottile, ma manderebbero in galera un ragazzino per qualche spinello. Il loro partito, poi, sul caso di Sergio D'Elia ha fatto una specie di voltafaccia».
Parliamo della nomina dell'ex terrorista nell'ufficio di Presidenza della Camera?
«L'ex vice-premier Gianfranco Fini e l'ottimo Andrea Ronchi hanno lavorato per mesi con D'Elia alla moratoria internazionale sulla pena di morte. E ora non hanno detto una parola per difenderlo».
In che rapporti è rimasto con gli altri ex alleati della Casa delle Libertà?
«Marco Pollini e Bruno Tabacci hanno firmato il mio manifesto per la modernizzazione. Sono quelli che stimo di più. Da Bruno, che stava prima di me nella stanza del Presidente di Commissione per le Attività Produttive, ho pure ereditato un ritratto di Giulio Einaudi».
E gli altri? Lei, tra i radicali, era considerato uno dei pasdaran polisti.
«Ma poi Berlusconi ha buttato l'occasione di fare una rivoluzione. E Tremonti ha scelto il colbertismo invece del liberismo. A un certo punto si è messo a difendere pure la corporazione dei forestali calabresi, che sono più di quelli canadesi».
Cito. Capezzone: «È nella destra che c'è lo spirito riformatore, a sinistra non saprei con chi parlare».
«Nell'elettorato del centrodestra la voglia di innovazione e sempre stata fortissima».
Cito ancora. Capezzone: «Non riesco a immaginare come negli Usa potrebbe sopravvivere politicamente uno come Prodi, che vanta nel suo palmarès la seduta spiritica sul caso Moro». «Ora spero che Prodi prosegua sulla strada fresca degli atti che lui stesso sta portando avanti con Bersani. Gliel'ho detto pubblicamente: più coraggio, Presidente, più coraggio. Sono molto affezionato a questo appello».
Perché? «L'ho fatto durante il mio primo intervento alla Camera».
È arrivato a Montecitorio dopo anni di militanza radicale. Quando ha conosciuto Pannella?
«Il primo gennaio '98. A una manifestazione a piazza Colonna. Sulle dinamiche dell'incontro ci sono più versioni».
Cioè? «Io sostengo semplicemente che mi presentai al leader radicale. Lui invece dice che mi vide nell'ombra, dietro un'edicola, mi scambiò per un questurino in borghese e mi ringraziò per la presenza in un giorno di festa».
Poi che cosa successe? «Cominciai a frequentare il partito».
Al liceo o all'università aveva fatto parte di qualche movimento studentesco?
«No. Sono stato undici anni al San Giuseppe De Merode, un istituto gestito dalla Congregazione dei Fratelli delle Scuole Cristiane».
Un radicale formato dai preti. Come mai i suoi genitori la mandarono lì? Famiglia cattolica?
«I miei genitori, commercianti di abbigliamento, fecero una scelta di qualità. I professori erano ottimi. E io ero uno studente modello. Certo, tra quelle mura si e inoculato il virus che ha stimolato i miei anticorpi contro la Chiesa. Poi ho cominciato a studiare legge. E contemporaneamente ho iniziato a osservare i radicali».
In che senso? «Tra i miei 18 e i miei 25 anni li ho studiati. Frequentavo, senza partecipare. A capodanno del '98 mi sono fatto avanti».
Chi c'era la ricorda un po' impettito. Alle prime riunioni si esibiva in inchini e saluti ultraformali. «Ero semplicemente educato».
È vero che una volta, durante uno di questi incontri in via di Torre Argentina, Pannella le tirò un sigaro? «Per scherzo. Stavo chiacchierando con un compagno e lui ci ha richiamati all'ordine».
Il famoso Pannella padre-padrone. «Ma figuriamoci. La letteratura sul rapporto tra Marco e il partito e zeppa di cliché».
Spazziamoli via. È possibile il dissenso con Pannella? «Certo. Marco esalta i momenti di contrasto e gli dà grande valore politico».
Peccato precedano sempre l'uscita del dissenziente dal partito.
«Non è vero».
Un esempio di un radicale rimasto nel partito contro Pannella?
«Roberto Cicciomessere, i suoi scontri con Marco sono epici».
Degli ex radicali chi è quello che si è allontanato di più dalla retta via? «Direi Gaetano Quagliariello».
Il professore, oggi sodale di Marcello Pera, eletto al Senato con Forza Italia. «Era il vicesegretario dei radicali. Ora, su qualsiasi tema, è nel cuore di una posizione reazionaria».
Lei andrebbe a congresso con una mozione anti-Pannella? «Non sono interessato a vincere congressi con o senza Pannella. Dipende dalle proposte politiche. Comunque credo che la pretesa di alcuni di voler magicamente separare le sorti del partito da quelle di Marco sia una sciocchezza».
Appunto. Un altro cliché: i radicali sono monaci laici votati alla militanza. «Una balla. Io mi diverto moltissimo».
Della sua vita sentimentale parla poco. Una volta ha detto che l'idea del matrimonio sta un po' più sotto quella di iscriversi a Rifondazione Comunista. Conferma?
«Correggo. Sostituisco Rifondazione con i Comunisti Italiani».
E svicola la domanda su fidanzamenti e matrimoni. «Il matrimonio richiede spazio e impegno che non ho».
Perché è un monaco radicale. «Dormo quattro ore a notte. Ma sono pronto a rispondere a domande su spettacoli, sport, teatro e letteratura».
Ultimo film visto? «Al cinema è un po' che non ci vado. Ma ho appena riassaggiato Il posto delle fragole. Ingmar Bergman lo frequento ciclicamente. Come rileggo ciclicamente Luigi Pirandello».
Monaco radicale con tendenze autistiche. «Non si può dare del monaco a un opinionista di Markette».
Già. Lei è ospite fisso alla trasmissione di Piero Chiambretti.
Viene il sospetto che sia una copertura: un'operazione per rendere simpatico il serioso Capezzone.
«Ma dai. Piuttosto diciamolo: Markette è un luogo di libertà. Romano Frassa, l'autore con cui sono in contatto, non mi ha mai detto: questo non si può dire. Mi hanno pure riconfermato per l'anno prossimo».
Ma è vero che dopo ogni puntata lei andava a spulciare la curva dei dati di ascolto?
«Certo. Per spirito di squadra. Conoscere la propria resa è uno stimolo per migliorare».
Con la Tv voi radicali non avete un buon rapporto. Capezzone ha fatto del «Vespismo» una categoria negativa. «Ora con Vespa va meglio. Ma basta vedere quanto (poco) vengo invitato io e quanto (tanto) viene invitato Fausto Bertinotti per capire il perché delle mie critiche».
Che fa, si lamenta? Lei ha avuto da ridire anche su Anna La Rosa.
«Un modello lunare. Non conosco Paese occidentale in cui un giornalista rinunci così a fare delle domande degne di questo nome».
Esagerato. «In generale la televisione italiana è scandalosa. Un dato che rende la follia: per trovare un metalmeccanico sul piccolo schermo, bisogna prima veder sfilare 283 vescovi».
Altra categoria capezzoniana che riguarda il rapporto tra politica e televisione: il Pecorarismo.
«Il vizio di molti leader italiani: hanno una vita scandita dai tempi delle microinterviste. L'obiettivo ultimo è quello di finire nel pastone del Tg1. Peggio c'è solo il poveraccismo».
Che roba è? «È l'Italia che ci ha raccontato meravigliosamente Roberto D'Agostino con quell'enciclopedia del costume italiano che è Dagospia: una galleria di potenti/poveracci che si strafogano al buffet».
Il poveraccismo è bipartisan? «Mi pare che a sinistra siano tutti più riservati. Ma diciamolo: il nuovo non passa per la prima fila della spiaggia di Capalbio».

Data: 
Giovedì, 13 July, 2006
Autore: 
Vittorio Zincone
Fonte: 
MAGAZINE - CORRIERE DELLA SERA
Stampa e regime: 
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